Oscar insanguinato

Oscar insanguinatoTitolo originale: Theatre of Blood

1973 – Regia: Douglas Hickox – Con: Vincent Price, Diana Rigg, Ian Hendry, Harry Andrews, Robert Coote, Michael Hordem, Coral Browne, Robert Morley

Nel 1971, Robert Fuest diresse L’abominevole dottor Phibes, un horror barocco nel quale Vincent Price interpretava l’omonimo dottore. A questo gioiello fece seguito Frustrazione l’anno successivo, che però non riuscì a raggiungere il medesimo livello del primo capitolo. Sebbene diretto da un regista diverso e slegato dal personaggio  di Phibes, Oscar insanguinato può essere visto come il vero, per quanto ufficioso, seguito.

La sceneggiatura poggia sulla stessa base: il personaggio interpretato da Price porta avanti una sanguinaria vendetta eliminando una lista di persone con un modus operandi ben preciso. Se ne L’abominevole dottor Phibes l’ispirazione per gli omicidi proveniva dalle dieci piaghe d’Egitto, in questo film sono le opere di Shakespeare a guidare i delitti.

Il titolo italiano, purtroppo, non rende giustizia a questo importante elemento, privandoci dell’elegante visceralità del Theatre of Blood originale. È tuttavia un dettaglio di poco conto se confrontato a tutto ciò che il film ha da offrire.

Edward Lionheart, attore di teatro snobbato da diversi critici per le sue interpretazioni vecchio stile, si finge morto e inizia a vendicarsi dei suoi detrattori ispirandosi proprio alle opere che ha portato sul palcoscenico. Da qui parte una serie di morti grottesche e amabilmente sopra le righe, perfettamente in sintonia con la gustosa recitazione di Price, che sfodera una delle sue prove migliori.

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Non voglio rivelare troppi dettagli sulle sequenze che costituiscono la spina dorsale del film; dico solo che la fantasia della sceneggiatura non si rivela solo nella qualità degli omicidi, ma anche nella loro varietà. Per esempio, la violenza quasi pulp di Tito Andronico fornisce la base per un crudele preliminare all’omicidio vero e proprio, mentre il talento manipolatorio di Iago porta ad un omicidio per procura, organizzato con un assurdo quanto geniale piano.

Con il suo approccio inusuale, Oscar insanguinato è un omaggio unico nel suo genere al teatro di Shakespeare, realizzato con ironia ma anche con sincera ammirazione per le opere sulle quali si basa. Lo consiglierei anche come visione scolastica, magari in inglese per apprezzare l’eccellente dizione di Price.

VOTO: ••••

Amleto (1964)

amletoTitolo originale: Гамлет (Gamlet)

1964 – Regia: Grigori Kozincev, Iosif Shapiro – Con: Innokenty Smoktunovsky, Mikhail Nazvarov, Elza Radzina, Vladimir Erenberg, Yuri Tolubeyev, Stepan Oleksenko, Anastasiya Vertinskaya, Igor Dmitriev, Vadim Medvedev, Aadu Krevalid

Per qualche strano motivo, sembra che i migliori adattamenti delle tragedie di Shakespeare siano realizzati al di fuori del patria del Bardo, come a voler confermare la validità universale dei suoi drammi. Se, infatti, il Macbeth e il Re Lear hanno raggiunto l’apice sul grande schermo grazie a Kurosawa – il primo con l’asettico e rigoroso Il trono di sangue, il secondo con il grandioso, colorato e sontuosamente disperato Ran – l’Amleto sovietico di Kozincev e Shapiro riesce ad eguagliare e persino superare quello di Olivier.

Lo spunto di partenza per questa produzione fu proprio l’adattamento sullo schermo ad opera di Olivier, nel quale Kozincev constatò uno squilibrio tra l’abbondanza dell’introspezione psicologica e la carenza di attenzione per la componente politica. Per realizzare una versione della quale fosse davvero soddisfatto, Kozincev impiegò quasi un decennio di lavoro, basandosi sulla traduzione realizzata da Boris Pasternak. Il risultato fu questo film meraviglioso, nel quale la politica e la psicologia, il personale e l’universale si uniscono con una sorprendente naturalezza dialettica.

Rispetto all’opera originale sono stati effettuati molti tagli, con la riduzione della durata a due ore e mezza rispetto alle quattro ipoteticamente necessarie per una rappresentazione completa. Ciò non costituisce un problema per il film; anzi, lo snellisce e lo modernizza senza comprometterne lo stile né i contenuti.

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L’Amleto di Smoktunovsky, con i suoi monologhi trasformati in riflessioni interne, è meno edipico e più immerso nella realtà rispetto ad altre interpretazioni, un principe potenzialmente ideale ma schiacciato, oltre che dalla personale riluttanza, anche da un clima soffocante e carico di sospetto. L’imponente castello diventa una sorta di personaggio a sé in tal senso, dominando le scene con le proprie ambientazioni sobrie ma solenni, precludendo ogni possibile via di fuga al protagonista. Anche lo spettro del padre diventa un’ombra gigantesca e opprimente, che forza il figlio alla vendetta più che convincerlo.

Lo stile rigoroso e la fotografia dal bianco e nero pulitissimo permettono di incorniciare scene e particolari senza distaccarli dal flusso narrativo. Ecco quindi far capolino al matrimonio tra Claudio e Gertrude dei danzatori dall’aspetto primitivo con maschere da toro, quasi ad evocare la figura del Minotauro quale frutto pericoloso di un’unione degenerata, o l’incedere delle statue che ornano il grande orologio del castello in una sinistra processione di vescovi, re e guerrieri che si conclude con la Morte armata di falce quale sinistro presagio.

Il tema dell’orologio e della musica si riflette anche nelle scene di Ofelia (una straordinaria Vertinskaya), la quale si muove in alcune scene con gesti meccanici, accompagnata da una musica che ricorda quella di un carillon. Tali scene sono le uniche “costruite” in una rappresentazione altrimenti vicina ad una narrazione più materiale, ma noAmleto 2.jpgn stonano affatto nello schema complessivo. Altrettanto artefatta, sebbene squisita nella sua atmosfera limpida e dotata di una forte suggestione iconica, è la scena dell’annegamento, che riprende chiaramente la celebre opera di Millais.

La modernizzazione del testo si accompagna al dinamismo delle scene e ai movimenti fluidi della macchina da presa, come evidenziato nel finale: invece di accasciarsi tra gli altri morti nella sala del duello, Amleto, seguito dal fedele Orazio, fugge dal palazzo e raggiunge la costa esterna, dove proclama con semplicità ed efficacia “Il resto è silenzio”. La liberazione personale rispecchia la caduta del tiranno e l’avvento, seppur macchiato dal sangue, di un nuovo regno; e la tragedia (ri)trova così la propria collocazione nella Storia.

 

VOTO: •••••

Macbeth (2015)

Macbeth 12015 – Regia: Justin Kurzel – Con: Michael Fassbender, Marion Cotillard, Sean Harris, Elizabeth Debicki, Paddy Considine, Jack Reynor, David Thewlis, David Hayman

Non è stato facile formulare un giudizio su quest’opera. Shakespeare è uno dei miei autori preferiti e Macbeth è la sua opera che preferisco. È il testo teatrale che amo di più in assoluto. Nelle altre tragedie vediamo ciò che vorremmo essere, mentre nel Macbeth vediamo ciò che siamo in realtà.
In passato, quest’opera è stata trasposta sullo schermo con approcci e stili completamente diversi tra loro, dall’epica dal sentore espressionista di Welles all’asettico riadattamento di Kurosawa. Cosa aspettarsi, dunque, da questa nuova opera definita, fra le altre cose, un “Macbeth ai tempi de Il trono di spade”?
Dico subito che questa definizione è completamente sbagliata, oltre che decisamente poco lusinghiera dopo quell’obbrobrio che è stata la quinta stagione. Aggiungo però che il film non è nemmeno come mostrato dal trailer. Quello che mi aspettavo era una tipica ricostruzione “storica”, abbastanza convenzionale dal punto di vista stilistico e priva dei dialoghi recitati, se non per qualche inevitabile citazione. Il classico esempio di opera teatrale adattata al mezzo cinematografico.
Al contrario, e questo è stato completamente inaspettato, è il mezzo a essere adattato all’opera. I dialoghi sono ripresi dal testo originale, i tempi sono dilatati e i paesaggi naturali scozzesi (davvero splendidi), tormentati da nebbia e pioggia e deformati da filtri ottici, diventano un palcoscenico avulso dal tempo. I ritmi e lo stile visivo sono chiaramente debitori di un certo cinema russo, specialmente di Tarkovskij e Sokurov, e questa impostazione può avere inizialmente un effetto alienante sullo spettatore, specialmente se non ha un particolare interesse per il teatro.
Ammetto che la sequenza iniziale della battaglia non mi ha conquistato, con una contrapposizione fra scene al ralenti e scontri a velocità normale che lasciava presagire una regia incerta o, peggio ancora, una tamarraggine degna di 300. Fortunatamente, si è trattato solo di un piccolo inciampo iniziale, facilmente dimenticabile grazie alle sequenze successive. Una volta messo sui giusti binari, il film ha inanellato una sequenza suggestiva dietro l’altra, creando un’atmosfera cupa e tormentata.

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Al tono del film contribuiscono molto le prove degli attori, specialmente – e non potrebbe essere altrimenti – dei due protagonisti. Nonostante le polemiche per quanto riguarda gli accenti, Fassbender e la Cotillard rendono ottimamente gli stati d’animo dei loro personaggi, sia da soli che insieme. In particolare, il Macbeth di Fassbender è distaccato nella sua violenza, come se fosse in preda allo stress post-traumatico, mentre la Cotillard riesce a coniugare la falsa gentilezza con la crescente ossessione per la sua Lady Macbeth, conferendo una tragica, maligna grandezza al proprio personaggio nonostante le poche scene a sua disposizione – un’altra caratteristica fedele all’opera originale. Una piccola ma importante aggiunta rispetto al testo consiste nella morte, all’inizio del film, del figlio della coppia, cosa che permette di interpretare alcune scene e alcuni dialoghi in modo insolito e molto interessante, soprattutto la scena in cui Lady Macbeth parla di come avrebbe voluto strappare il bambino dal seno e schiacciargli il cranio. Inevitabilmente, la sua follia la porterà a vedere proprio il fantasma di quel bambino, che l’accompagnerà incontro alla morte.

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Un altro cambiamento di grande effetto è il rogo della foresta di Birnam, le cui ceneri giungono fino a Dunsinane: ottimo dal punto di vista non solo scenico, ma anche narrativo, in quanto fornisce la giusta ambientazione per un finale oscuro e quasi anticatartico. Nonostante la morte di Macbeth e della sua signora, non si ha nessuna chiusura trionfale, nessuna invettiva contro il “beccaio morto e la sua demoniaca regina”, solo l’incertezza dell’appena incoronato Malcolm e un giovane Fleance che, agitando la spada di Macbeth, s’immerge nel rosso del campo di battaglia, lasciando presagire un futuro altrettanto incerto e sanguinoso.
In definitiva, questo Macbeth non è il film che mi aspettavo che fosse ma, visto il risultato finale, è un bene. Il trailer così diverso, ai limiti della menzogna, da un lato è necessario per attirare gli spettatori “non teatrali” in sala, dall’altro potrebbe generare delle aspettative sbagliate e portare ad un’immeritata condanna del film. Per quanto mi riguarda, tuttavia, sono più che soddisfatto.

VOTO: ••••

Macbeth – La tragedia dell’ambizione

Macbeth2006posterTitolo originale: Macbeth

2006 – Regia: Geoffrey Wright – Con: Sam Worthington, Victoria Hill, Steve Bastoni, Lachy Hulme, Chloe Armstrong, Kate Bell, Miranda Nation, Matt Doran

Shakespeare e il cinema, si sa, vanno spesso e volentieri a braccetto e la storia del “beccaio morto e della sua demoniaca regina” è già stata portata sullo schermo varie volte, dal nebbioso (in senso buono) adattamento teatraleggiante firmato da Orson Welles alla splendida riproposizione all’epoca del Giappone feudale ad opera di Kurosawa.
Mancava però una trasposizione ai giorni nostri, impresa peraltro non difficile considerata la spudoratezza dei due protagonisti, degna dei migliori imprenditori e dei più affermati politici. Il recente adattamento di Wright sembrava quindi un’opera promettente, ma le promesse sono state deluse.
Innanzitutto, il film è ambientato nel mondo della malavita di Melbourne, una scelta decisamente meno coraggiosa rispetto alla spiccata politicità del contesto originale. Scegliendo un mondo apertamente criminale, il regista facilita il percorso verso la violenza ma, allo stesso tempo, lo rende molto più prevedibile e politicamente corretto.
Per quanto riguarda lo stile, la solita serie di banalità gangster pseudo-tarantiniane rendono stridente il contrasto fra il linguaggio aulico (nonostante qualche cambiamento secondario) e l’ambientazione moderna, dando al film un’aria forzata ed artificiosa. Non aiutano le scenografie anonime e leccate, né la quantità eccessiva di scene girate nell’oscurità. Quella che, come promette il titolo italiano, dovrebbe essere una tragedia dell’ambizione si smorza nell’ombra, nella droga, nell’erotismo e nelle sparatorie, senza dare il giusto risalto ai punti focali della trama. Tutto è attenuato, confuso, smorzato.
Il cast fa comunque un lavoro discreto, cercando di armonizzare l’anima classica dei personaggi con le loro caratteristiche “aggiornate”. In particolare, Victoria Hill è un’ottima Lady Macbeth, ossessiva al punto giusto ed insolitamente corvina. Worthington avrebbe reso meglio il personaggio dell’eroe spinto sulla via del male se, appunto, non fosse stato presentato come un criminale sin dal principio.
In definitiva: al di là del testo originale (dopotutto, non è facile sbagliare con Shakespeare) e di qualche buona performance, questo Macbeth offre poco, perso com’è in uno stile dark e modaiolo pieno di ombre ma, ahinoi, abbastanza povero di sostanza.

Voto: ●●